Un ragù profondamente sociologico.

‘O ‘rraù
eduardo-de-filippo-fotoritratto

Eduardo De Filippo

‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
io nun songo difficultuso;
ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso
Sì,va buono:cumme vuò tu.
Mò ce avéssem’ appiccecà?
Tu che dice?Chest’ ‘è rraù?
E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘ a faja dicere na parola?…
Chesta è carne c’ ‘ a pummarola
 
Eduardo De Filippo
 
Il Ragù Napoletano

Il Ragù Napoletano

La poesia di Eduardo non è solamente una segno dell’opulenza della cultura napoletana, ma soprattutto definisce i contorni di un determinante e articolato aspetto della vita quotidiana: lo stretto rapporto fra identificazione culturale e gastronomia. Il riferimento teorico appare lapalissiano. Dalla rivoluzione di Darwin l’umanità ha ereditato la rivelazione della potenzialità strumentale del contesto. Accelerando il passo sul continuum storico si giunge al ruolo determinante del contesto culturale sulla costruzione dell’identità sociale dell’individuo. Nel mezzo di questo percorso c’è una lettura dell’essere umano come risultato di una sommatoria di insiemi di eventi più o meno legati al mondo fisico e radicati in maniera uniforme nel mondo culturale. L’individuo è la somma delle cose che gli capitano; nella propria vita, nella somma degli anni che vive presi singolarmente, nella somma dei giorni che compongono quegli anni, nell’accumularsi delle ore, dei minuti e dei secondi che costituiscono l’esistenza. L’individuo è il contenuto del proprio tempo. Così come gli anni ’70 e la beat generation sono il contenuto delle scatole di pomodori Campbell. E la rappresentazione di Warhol non è altro che la diffusione per mezzo dei canali comunicativi ingigantiti dal mondo moderno di una forma culturale.

E così, non di meno, e semmai ancora di più, il ragù di cui parla De Filippo è una forma culturale con una storia molto più articolata e sovversiva dei pomodori Campbell.
L’uomo è ciò che mangia. E ciò che mangia è un elemento assolutamente rilevante della somma delle forme culturali riferite al proprio tempo. De Filippo, con l’ausilio della cultura napoletana, trasborda la forma dal vagone-“tempo” al vagone-“vita quotidiana”. Così da riportare il modo in cui la forma continua ad articolarsi sul continuum.
Per fortuna io ho avuto il grande privilegio di crescere a pane e ragù napoletano. Il ragù a Napoli è la domenica. Oltre al pranzo della domenica, è anche una forma che va dal contenuto gastronomico della domenica fino al contenuto fisico delle pance dei napoletani alla domenica. La scoperta di un sapore da parte di un bambino è un’esperienza così fondamentale che non è possibile riprodurla in maniera comprensibile. Ad ogni modo per me è stato indescrivibile.
La percezione del sapore è il primo zampillo di vino che va a riempire la giara. Si può già dire “Mi piace”. Ma sono determinanti tutti i successivi eventi che rappresentano ogni ulteriore millilitro. Sono eventi o sotto-eventi che articolano la forma culturale. La prima cosa che mi ha stimolato ulteriori interessi verso il ragù è un racconto di mio padre che veniva fuori ogni volta che a tavola c’era qualcuno che non mangiava lo spezzatino. Questo veniva servito dopo la pasta; e nella concezione di mia madre tale circostanza faceva sì che “le zite” al ragù e lo spezzatino costituissero un pasto completo. Alla luce degli anni posso confermare questa teoria, ma all’epoca, dato che la parola inappetenza era una specie di parolaccia per me, mi sembrava inconcepibile. Così quando qualcuno non prendeva lo spezzatino mio padre protestava. E protestava ancora di più quando, discorrendo sulla fenomenologia dello spezzatino, mia madre andava ad affermare che lo spezzatino bastava come secondo del pranzo della domenica. Mio padre sosteneva che questo non era altro che un accompagnamento al primo piatto e non poteva rappresentare il secondo del pranzo domenicale… altrimenti che gusto c’era nella domenica… e aggiungerei nel pomeriggio della domenica?
Il pomeriggio dedicato alla digestione era un piacere raro, quasi poetico, una sensazione quasi associabile alla scoperta del sapore del sugo cotto e stracotto durante tutta una mattinata a fuoco lento. La domenica mattina era in assoluto il “peppetiare” lento e compassato della conserva nella quale annegava lo spezzatino. Il pomeriggio era quasi un ripercorrere quel rumore per ore. Ore di inattività a godersi il dolce lavorare dello stomaco.

Lo Spezzatino

Lo spezzatino

Passato qualche anno, cominciai a chiedermi perché pasta e spezzatino non si servivano insieme. Così arrivai al gradino successivo della giara. Essendo un piatto della nobiltà napoletana, un piatto che si mangiava a corte, la carne che per diverse ore insaporiva il sugo fino allo stremo, veniva ritenuta come depauperata del proprio sapore. Ho riflettuto a lungo su questo assunto della corte dei borboni. Infatti l’unico modo di accertare tale fatto sarebbe quello di separare dopo ore di cottura la carne dal sugo. Sfido io! L’amalgama e il fatto che il ragù per riuscire a dovere deve attaccarsi fa si che tale operazione é impossibile… ma soprattutto imperdonabile. Infatti lo spezzatino racchiude proprio la zona di semicristallizzazione del sapore. L’interstizio in cui si sono scontrati e hanno fatto all’amore i sapori del pomodoro e della carne. Così alla corte dei regnanti sulle due Sicilie lo spezzatino veniva lasciato per la servitù. La forma culturale rileva la sua raffinata articolazione. L’individuo più potente, il re, rinunciava alla parte più buona del piatto della domenica. Viene quasi da chiedersi se sia corretta l’interpretazione di “lasciare alla servitù”. Sicuramente c’è da interrogarsi su quanto la servitù fosse infastidita da questa pietosa e bizzarra concessione. E le proteste di mio padre avevano un significato risultato dalla storia. Di colui che, grazie al tempo che passa poteva finalmente godere dei piaceri del re come di quelli della servitù.
Ma nello stesso momento subentrava un’ulteriore articolazione della forma. Mio padre concepiva il pranzo della domenica come una specie di evento sacro. E questo non poteva non comprendere due piatti indipendenti fra di loro; come due colonne che sorreggono il monumento. E quindi il problema grosso è che il ragù non esauriva la sua soddisfazione gastronomica. Era necessaria e imprescindibile una variazione di sapori che arricchisse la mattina, il pomeriggio e le tre ore di pranzo della domenica. E per quanto mia madre contrastasse queste esigenze “gastro-culturali”, lei stessa ne era fortemente coinvolta. Al livello culturale… ma soprattutto al livello di mondo fisico!
Insomma il ragù era per la mia famiglia un’istituzione. Un’istituzione che traeva la sua forza costituente e i propri meccanismi di mantenimento soprattutto dal fatto che era una tradizione che si andava perdendo. D’altronde parliamo di un piatto che necessita di sei o sette ore di cottura. Ma proprio questo lo rendeva e lo rende un colosso del nostro mondo culturale.
Inoltre potrei azzardare che il ragù è un oggetto del mondo fisico dotato della sua forma di comunicazione. Infatti verso l’adolescenza ho imparato a svegliarmi sollecitato dal profumo dolce di quando il sugo comincia ad attaccarsi alla pentola. Ed ho anche articolato le mie pratiche quotidiane mattutine in funzione di questo dolce stimolo. Il momento in cui il ragù si attacca è l’attimo ideale per la colazione. Perché in superficie il sugo è poco concentrato, mezzo crudo e molto leggero. Allora diventa un dovere assaggiarlo sul pane.
Altro importante livello ulteriore della giara è la discussione fissa sull’opportunità di mangiare ragù tutto l’anno. E lì mio padre dava il meglio di se. Le mie sorelle infatti sono sempre state convinte del fatto che, essendo un piatto pesante, non era adatto all’estate e al caldo. Per mio padre questi propositi erano molto peggio delle bestemmie. Infatti obbiettava di rimando che il ragù si fa con le conserve. Queste si preparano lasciando cuocere al sole di maggio, giugno o luglio i pomodori. Una volta ottenuto il concentrato si riempiono le bottiglie. Di conseguenza i primi ragù dell’infanzia di mio padre erano ragù primaverili ed estivi. Cresciuti nella mente dall’immagine dei pomodori abbandonati al sole, passati per la magnificenza di schiere di “butteglie”, fino al risveglio colorato dal profumo del soffritto che impazzisce al contatto con il nettare della conserva di pomodoro. Ora come si può tollerare che di fronte a tale monumento le tue figlie si preoccupino di questioni di linea.
Eppure dopo anni mi continuano a stupire la percezione e la sensazione di questo monumento culturale. Continuo ad oscillare fra la paura della perdita di tale tradizione e la consapevolezza della storia che digerisco ogni domenica pomeriggio. E De Filippo si appollaiava proprio sullo stesso continuum che mi affascina, azzardando addirittura la possibilità di lasciar perdere perché dice:

“io nun songo difficultuso;
ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso”

E lo dice con lo stesso tono con cui mio padre ancora oggi fa appunti e osservazioni al ragù di mia madre. Entrambi sanno benissimo che sono inerzie che fanno parte del monumento. Si tratta del loro modo di continuare ad articolare la forma culturale. Ed ecco che questa diventa storia e fa la storia. E di fronte a tutto questo, oggi io mi trovo davanti ragù e pomodori Campbell. L’unica risposta concepibile è quella di Johnny Depp in “Donnie Brasco”: “Che te lo dico a fare!”.

Mi viene in mente la metafora di Amélie Nothomb. In “Metafisica dei tubi” lei associa il bambino a un tubo. Un tubo nel quale si mettono delle cose e dal quale ne escono altre. E anche l’individuo adulto è un tubo. Un tubo al quale sono stati fatti altri fori dai quali penetrano nuove cose… Ecco una definizione di cultura (o di forma culturale): la forma dei nuovi fori del tubo.

YanezDeGomera

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