Roma, 20 maggio 2010.
Alla facoltà di scienze della comunicazione questo pomeriggio si è svolto un incontro con i giornalisti Marco Travaglio e Antonio Padellaro. L’evento organizzato dalla cattedra di Sociologia dei processi culturali verteva sul tema di “Cultura e Legalità”. Le note introduttive sintetizzavano il senso di tale incontro in tre citazioni diversamente autorevoli sul tema di cultura e legalità. Prima di tutto un articolo del professor Rodotà, insigne costituzionalista. Il testo citato focalizzava il problema sull’espressione “parole perdute” riferita proprio ai concetti trattati (cultura e legalità). Successivamente viene chiamata in causa l’intervista di Eugenio Scalari al compianto Enrico Berlinguer, in cui si approfondisce la questione morale e la si definisce come più estesa di quella penale. L’introduzione finisce su Pasolini. Viene citato un articolo della nota rubrica “lettere corsare” in cui il poeta attraverso una critica al consumismo ed alla televisione allarga il discorso al concetto di cultura di massa.
La cosa che risulta scioccante del prosieguo dell’incontro è l’assenza assoluta di un contraddittorio. E senza pretenderne uno costruttivo, c’era da aspettarsene almeno l’apparenza per salvare la forma del dibattito. Inevitabilmente un tema del genere ed un evento organizzato in questo modo prevede l’esposizione di una lettura della realtà, e, trattandosi di giornalisti e soprattutto di quei giornalisti, l’esposizione di una propria visione del mondo. E quindi anche della politica e della storia, recenti e lontane. Ebbene il chierico Travaglio oggi pomeriggio ha spiegato all’aula magna della facoltà di via Salaria che Tangentopoli è il risultato di una classe politica che usava il potere per rubare.
Il chierico vagante fa un breve cenno al fatto che, forse, una piccola parte del partito comunista, si dice, non è sicuro, si mormora, fosse protagonista dello stesso malcostume. E comunque l’uomo scelto, casualmente, per rappresentare simbolicamente questa parte politica, è l’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Craxi viene descritto come un criminale da due soldi per di più anche un po’ instupidito dalla sua spudoratezza. Insomma per Travaglio rubavano tutti tranne chissà quale parte in causa. Si arriva fino a sbeffeggiare il noto intervento in cui Craxi invita i presenti in parlamento ad alzarsi e dichiarare che nei loro partiti non ci si rendesse protagonisti degli stessi errori.
Per concludere che l’unica parte da salvare in quella situazione fossero i “novelli Davide” che si resero protagonisti del lancio di monetine davanti all’hotel Rafael, dietro piazza Navona. Per quanto fosse noto che in parlamento nessuno osò reagire all’invito di Craxi e che i “novelli Davide” non erano altro che vecchi nemici del camerata Bettino assieme al quale amavano un tempo rimembrare i fasti della Repubblica di Salò, il nostro novello Torquemada ritiene che quando si è colpevoli di un reato prima ci si fa arrestare e poi si denuncia chi è colpevole degli stessi comportamenti.
Di fronte a tale impostazione del dibattito appare assolutamente inutile proseguire nell’intento di riportare il resoconto degli interventi dei due giornalisti. Appare molto triste rendere conto del commento accademico, del giudizio sul mondo raccontato da Marco Travaglio che è un mondo chiaro: dove i buoni sono buoni ed i ladri sono ladri. Quasi un’allucinazione collettiva sbiadita, con Aldo Fabrizi che rincorre Totò o viceversa, non si sa, ma in fondo non è neanche così rilevante.
Quello che è molto più inquietante è l’osservazione distaccata di quell’aula. Il tono generale del discorso è veramente rilevante, vista la lenta ed inesorabile ritirata dalla vita sociale universitaria dell’argomento politico. C’è però il piccolo problema che l’intento ultimo dell’intervento travagliesco sfugge all’ascolto attento. Non si capisce proprio chi sono questi santi che non rubano, non rubavano, e, verosimilmente, non ruberanno mai. O almeno io azzarderei un “non ruberanno mai (più)”.
Prevale infatti la convinzione, dopo attente riflessioni, che sia l’ignota adunata davanti all’hotel Rafael, sia gli analisti del mondo muniti di vetrini frutto della morale di Baldassarre Castiglione, come Travaglio, abbiano rubato e rubino in tempo reale qualcosa di molto importante alle nuove generazioni: la storia, quel supremo concetto che per Lenin era il fine ultimo dell’umanità. Un inquadramento storico che si sforza non solo di essere onesto e contrapposto al potere per autoleggittimazione, ma piuttosto obbiettivo e sufficientemente dettagliato nell’analisi delle piccole sfumature che hanno una certa rilevanza, necessita proprio la rimozione di quelle lenti a contatto che la gente come Travaglio e Padellaro ha ereditato per via genetico-culturale.
Sfumature di sufficiente risoluzione renderebbero a quei giovani studenti una minima possibilità (che spetta loro per diritto naturale) di guardare a quei gravi eventi finalmente a occhi nudi. Travaglio si è portato via con se (e l’ha rinchiusa a doppia mandata nella purissima redazione del Fatto Quotidiano), proprio quella libertà che risiedeva nella possibilità di utilizzare un occhio terso dai condizionamenti ideologici di cui diverse generazioni sono purtroppo, o a dire di molti per fortuna, state dispensate, con la violenza in alcuni casi, con il benestare dei soggetti stessi in altri. E si tratta di vetrini che distorcono irrimediabilmente i fatti in nome della legalità e non della morale.
In quella facoltà si insegna, con Parsons e Merton, che il ruolo del giornalista si colloca a metà fra la cultura e il paese reale, e si tratta proprio della funzione che garantisce l’evoluzione del sistema sociale in base alle distorsioni del sistema stesso. Per Travaglio invece il problema è che quello che è distorto in Italia è il ruolo di indirizzo della vita politica, di governo, che affossa i soggetti veramente possessori della giusta decisione legale e, di conseguenza, morale. Tale moralità si misura quindi, per Marco (detto anche “Beato subito”), sulla legalità e non sulla cultura e la storia (per dirla con Darwin, sul contesto). Ed in più, tanto per gradire, sul contenuto di tale decisione il chierico santo lascia calare un velo di mistero attraverso bassi escamotages degni della retorica più vuota di valori democratici, come i simpatici soprannomi ed aneddoti “grottesco-goliardico-ridicoli” dei quali orna le proprie frasi.
Una moderna versione del “panem et circenses” ecco cosa cerca la gente che si sente di applaudire quando il valente soldato “suo malgrado” Padellaro esclama, riferendosi a Berlusconi, “nostro presidente un corno”. Non c’è mai nessuno che si alzi e chieda: “ma chi sono quelli che non rubavano, e che non rubano?” Insomma se non ci sono due Italie in realtà, una buona ed una ladra, allora perché gli italiani non sanno chi andare a votare? Non sarà mica che l’unico sistema per avere dei candidati puliti e politicamente avveduti è quello di ricorrere al timbro della procura della repubblica? Non è forse questo che si auspicano il travaglio e la padella? No perché sarebbe un chiaro ed acuto intento di intaccare quel “gioiello” di costituzione di cui parla tanto “er padella”.
Il consenso non può essere senza dubbio l’unico strumento di verifica della rettitudine di una democrazia, ma ancora di meno lo può essere il concorso in magistratura. E ancora di meno le grandi capacità drammatiche di un cronista giudiziario che dice di non fare altro che il suo mestiere andando a fare comizi in tutti i luoghi ed in tutti i laghi per una parte sociale come il potere giudiziario che con delicatezza, e non con atteggiamenti da sbirro coatto di provincia, dovrebbe permettersi di sfiorare la sfera politica a tutti i suoi livelli.
Ciò che più fa tristezza è il pensare a quanto sia morta e defunta la politica universitaria. E quanto sia ancora più triste vedere il lento avanzare di eventi del genere verso la mistificazione dell’attività politica universitaria. Così si pervertisce l’essenza stessa di tale concetto. Per quanto ci si premura di dare la parola al pubblico per rispettare la forma del dibattito, a chi non sposa la visione del mondo di Travaglio vengono cancellate le motivazioni di rispondere al contraddittorio. Mettere in questione un’impostazione ideologica significherebbe rischiare un linciaggio stabilito su basi culturali. Ed ancora una volta significherebbe dividere correndo il rischio di non riunire neanche le persone minimamente in buona fede. Quegli studenti che, allo stato di natura, si trovano sballottolati dal travaglio alla padella, meritano una speranza ben più alta del fatto che agli interventi di Travaglio c’è sempre molta gente che ha voglia di fare politica.
Quegli studenti meritano soprattutto una classe politica che venga fuori dai partiti e non dalle redazioni dei giornali e dalle procure della Repubblica. Lo dice persino il nostro gioiello di costituzione!
Totò e Fabrizi sono due risposte diverse allo stesso problema, con la differenza che il ladro scappa mentre la guardia rincorre. Quello che invece accomuna entrambe le parti è la rinuncia alla libertà di cercare risposte più giuste ed alla serenità e la moderazione necessarie a tale sacro scopo.
Inizialmente, ad uno spettatore attento ed imparziale dello show di travaglio e padella, verrebbe di alzarsi e chiedere: “Mi scusi signor Travaglio ma perché lei non si presenta alle elezioni visto che non ha mai rubato, non ruba e non ruberà mai?”. Ma anche mettendo da parte qualsiasi timore per il linciaggio culturale ed ideologico, a qualsiasi uomo intelligente soggiungerebbe subito una risposta più che soddisfacente: Travaglio non si candida per non rubare!
YanezDeGomera (ilredelmare)