A scuola si insegna che la storia contemporanea è un oggetto molto particolare. Nello specifico si può parlare di storia solamente se gli eventi in questione sono riconducibili a più di cinquant’anni dal momento presente. Il periodo che si interpone fra il presente e cinquant’anni prima è quindi oggetto dell’analisi storiografica, che, all’epoca attuale, non può prescindere dalla considerazione dei prodotti mediali riconducibili ad una data società e ad una data cultura. Così i nuovi mezzi di comunicazione, che sono nati e si sono diffusi pressappoco negli ultimi cinquant’anni, sono legittimamente candidati ad occupare un posto rilevante nell’ambito di tale analisi.
Da una decina d’anni, in Italia, si assiste ad operazioni commerciali che, per forza di cose, avvicinano una serie di prodotti mediali ispirati ad eventi storici particolarmente rilevanti e relativamente recenti, ad assunti storiografici propri di quel livello di analisi. Insomma, una serie di libri, film, serie televisive, prendono in oggetto eventi storici che, spesso e volentieri, i libri di storia delle scuole di Secondigliano, di Spinaceto e del quartiere Giambellino, nel 2011, trattano con le pinzette e spesso, anzi li sorvolano, proprio perché non si tratta di storia con la “S” maiuscola.
Sarebbe senza dubbio censura, e sarebbe oltretutto da stupidi e da ignoranti, impedire a De Cataldo di raccontare la storia (romanzata) della Banda della Magliana, a Placido di farci un film ed a Sorrentino di raccontare, dal punto di vista di un autore cinematografico, la “spettacolare vita di Giulio Andreotti” (dando per scontato, per altro poco elegantemente e soprattutto erroneamente, che questa sia finita). E sarebbe altrettanto reazionario, oltre che da stupidi e da ignoranti, da parte dei tre autori, citati ad esempio, lesinare la cura della ricostruzione del contesto storico.
Ma può questo contesto essere reso in un romanzo o in un film di tre ore impostato su un livello narrativo che richiama i film d’azione americani? Le operazioni cinematografiche di Placido, tutto sommato, non consistono semplicemente nell’appiccicare con lo scotch una propria foto sul busto di Scorzese e nel fare di De Cataldo il proprio Mario Puzo? E soprattutto in merito alla recente produzione di un film sulla vita di Vallanzasca, quanto può costare la riabilitazione a moderno Robin Hood dal criminale che era, rispetto a quella di Craxi, che è morto ed al quale la Moratti ha pensato di dedicare una Piazza, vista la particolare tranquillità e l’assenza di contrapposizioni nel clima politico?
Certo, parliamo di operazioni commerciali economicamente rilevanti, e di un intento tutt’altro che condannabile a priori. Ma per quanto Placido si sia distinto come pluridecorato attore (e soprattutto non per la lotta alla mafia che spara a salve nello schermo televisivo dell’italiano medio), non può essere elevato al rango di professore di storia che non è ancora storia. Perché Vallanzasca è ancora vivo e sta ancora pagando il suo debito con la società; perché i parenti delle vittime del terrorismo degni anni ’70 e delle stragi di mafia si stanno ancora leccando delle ferite scoperte ed esposte alla luce del sole; perché sentire che i ragazzini del 2011 vengono, inevitabilmente quanto indebitamente, esposti alla mitizzazione di figure lontane anni luce dal bandito che ruba ai ricchi per dare ai poveri, risulta inaccettabile proprio a chi non tollera alcuna forma di censura. Ma soprattutto, perché la crisi intramontabile della classe politica attuale non può essere storicamente disconnessa da quel contesto storico che un finto pescatore di “purpetielli” cerca di ricostruire.
Non si può pensare di affrontare queste tematiche lesinando un serio ed approfondito giudizio politico. E non si può pensare di raccontare quelle storie, nel 2011, senza il minimo, seppure ingenuo o involontario, sconfinamento verso i pregiudizi di parte.
E così, nel vedere la vita di Vallanzasca raccontata da Placido che cerca di passare alla storia come novello Goebbels “de noantri”, viene da chiedersi dove sono i buoni e dove sono i cattivi. Rimane da interrogarsi sul motivo per il quale il pubblico italiano dovrebbe essere più interessato a dove si collocano queste categorie secondo il nostro De Mattei degli anni 2000, che secondo un Esposito qualunque. Rispetto a “Romanzo Criminale” non si sceglie neanche di basarsi interamente su di un romanziere vestito da storico come De Cataldo, ma ci si affida proprio al racconto diretto di chi paga nient’altro che i propri crimini, frutto della propria fame nella stessa misura in cui è frutto del proprio fallimento esistenziale e cioè la scelta della violenza come strumento per il potere (e non della redistribuzione equa della ricchezza).
La semplice e squisita “Ballata del Cerruti”, scritta da Giorgio Gaber, che si rivolta nella tomba al ritmo dello scandire di Celentano su cosa è Rock e cosa è lento, ha un valore storiografico immensamente più grande di tutte queste operazioni commerciali e mistificatorie. Vallanzasca non era solo il bandito gentiluomo e “tombeur de femmes” che si cerca di sbattere in faccia al quattordicenne del 2011, ma anche l’apostrofo con cui le nonne di quegli anni chiamavano i bambini capricciosi e svogliati.
Così Gaber si limita solo apparentemente a raccontare la realtà nuda e cruda, sa bene di sfiorare appena il pesante trono dello storico, e nel raccontare fino in fondo qual’è la lezione morale delle avventure del Cerruti, si siede sul trono ben più magnifico del poeta. E riesce così ad esprimere un giudizio morale infinitamente più raffinato attraverso l’allusione che si crea ad opera di una sola piccola parola. L’allusione è così efficace che arriva a scimmiottare non solo i contemporanei del cantautore milanese, ma tutti i bambini capricciosi della storia di questo mondo che sono convinti, per vizio o per fame, che rispetto a sgobbare sotto il padrone è meglio andare a fare le rapine. Magari si tratta dello stesso sedile di cui era alla ricerca il “Michelone” nazionale, ma pare che sul set non si riuscisse neanche a reperire la sedia di pezza scolorita del regista!
“È tornato al bar Cerruti Gino, E gli amici, nel futuro, Quando parleran del Gino, Diran che è un tipo duro…”YanezDeGomera